Nell’inestricabile dedalo di possibilità interpretative offerte dall’arte contemporanea, un’interessante chiave di lettura si ritrova nella pièce teatrale di Yasmin Reza “Art”. L’opera narra la diatriba esplosa una sera tra tre amici, per il semplice fatto che uno di loro sedicente collezionista acquista una tela bianca, affermando di essere al cospetto di un assoluto “masterpiece”. Peccato che gli altri due abbiano parere diverso con tutte le conseguenze del caso…
Questa premessa è doverosa perché scorrono gli anni e il contemporaneo italiano appare appiattito più o meno sulle stesse opere, gallerie e artisti. In tal senso un progetto come quello di “Make Italian Art Great Again” o MIAGA per gli amici del suo ideatore, Giulio Alvigini. MIAGA può essere la provocazione giusta al fine di consentire se non un cambiamento, almeno interessanti spunti di riflessione. A maggior ragione se si pensa che il media vincitore di questa edizione è stato senza dubbio Instagram.
La dimostrazione di tale ragionamento è confermata non solo da libri come “Contro le mostre” di Montanari e Trione (Einaudi), un’essenziale lettura per orientarsi sui labili confini tra arte e “mARTketing”, bensì anche dal clamoroso successo di “The Cleaner” di Marina Abramović. Dove, addirittura, la performer riesce a sconfiggere un mostro sacro come Picasso, in termini di visitatori dell’ultima mostra appena conclusa. Le ragioni vanno ricercate tra la possibilità di vivere la performance come un “hic e nunc “pertanto assurgere a livello di evento unico ed esclusivo, mentre il brand Picasso ormai reso moda rischia, come qualsiasi cosa inserita nel mainstream fashion, di diventare demodé.
Ma veniamo all’edizione 2019 di Arte Fiera. L’opera del neodirettore Artistico Simone Menegoi, classe 70, si vede eccome. I cardini sui quali ha instradato la curatela dell’edizione hanno dato una scossa di adrenalina a un evento che negli ultimi anni aveva perso la sua verve. Una vera svolta rispetto al percorso espositivo precedente confermata dal sentiment di tutti coloro che hanno avuto la fortuna di essere a Bologna in quei giorni.
La differenza si sentiva nientemeno livello olfattivo. Entrando nei padiglione si annusava proprio quell’atmosfera di vernice come quando all’epoca d’oro del secolo scorso il vernissage era il vestito di gala per inaugurare l’esibizione.
La scelta di limitare il numero di artisti per stand associato all’incentivazione dei solo show rendeva assolutamente coinvolgente la passerella tra le oltre 140 gallerie in fiera. Inoltre la suddivisione delle sezioni espositive “Main Section” e “Fotografia e Immagini in movimento” accompagnava in maniera virgiliana lo spettatore cosa che negli ultimi anni si era del tutto smarrita.
A giudizio di chi scrive stands imperdibili erano: lo stand monografico di Hans Hartung per Dellupi Arte, Liu Bolin per Boxart, Andrea Chiesi per Guidi&Schoen, Donald Martiny per Artea Gallery, Marco Reichert per Ribot Gallery, Jorge Eduardo Eielson per Cortesi Gallery e Tulio Pinto per Piero Atchugarry.
Interessante è stata la mostra “Solo figura e sfondo”, curata da Davide Ferri, che ha riunito per la prima volta opere dalle collezioni istituzionali, pubbliche e private dell’Emilia Romagna.
Infine ART CITY ovvero il “fuorisalone” nel centro di Bologna rimane uno dei motivi di successo di Arte Fiera. Con un programma nutrito di eventi sparsi in città, che già da soli varrebbero il prezzo del biglietto, culminato nella ART CITY White Night, dove l’atmosfera sotto i Portici e nei Palazzi d’arte era davvero magica.
Quali sono le prospettive per Arte Fiera? Rimarrà legata solo al suo ruolo storico oppure attraverso la nuova direzione artistica può ritagliarsi uno ancora più importante evitando di essere fagocitata, tra le altre dalla scena artistica contemporanea di Milano? Ai posteri l’ardua sentenza… E allora arrivederci ad Arte Fiera 2020.